martedì 15 ottobre 2013

TroikaLand. Parte I. La visione "distorta" della crisi in Europa


Dopo "Quello che bisogna sapere della troika", che vi ha presentato da un punto di vista storico-giuridico le tre istituzioni internazionali che si stanno sostituendo ad i governi nazionali, l'Antitroika presenta un nuovo percorso formativo "TroiKaLand", volto ad indicare passo passo come il dominio finanziario condizioni ogni aspetto della vecchia vita democratica dei paesi membri della zona euro.

di Chris Richmond Nzi

Lo scorso anno, il Presidente della Corte dei Conti disse che «questa spirale negativa (…) appare proprio la conseguenza di una visione distorta ed incompleta delle ragioni della crisi che l’Europa sta attraversando». I mass media lo snobbarono, troppi pochi diedero il reale valore alla gravità di quelle parole. Se fosse vero che i burattini del sistema economico-finanziario possano avere “una visione distorta ed incompleta delle ragioni della crisi”, noi, che di questo spettacolo siamo soltanto spettatori, che cosa potremmo aver mai capito? 

Siamo da poco venuti a conoscenza dell’esistenza del Fondo Monetario Internazionale, benché sia operativo da quasi 70 anni, ed abbiamo addirittura imparato che lo spread varia a dipendenza della stabilità del governo. Ma si sa, l’informazione è un’arma a modalità soggettiva. Due anni fa tutti i politici giuravano che le loro scelte politiche non erano in alcun modo condizionate dalle istituzioni europee, mentre oggi, abbiamo prove documentate che il bilancio pluriennale di uno Stato può essere redatto dalle istituzioni comunitarie ed internazionali; abbiamo appreso dell’esistenza di un Patto di stabilità, accontentandoci di sapere soltanto che ne siamo vincolati e che comporta degli obblighi predefiniti. Sentiamo vociferare di clausole e criteri, di 3 e 60%, di una riduzione del debito pubblico e di un probabile meccanismo di stabilità.

Gli architetti dell’Unione erano convinti che per mantenere l’acquis comunitario e completare il processo d’integrazione europeo, sarebbe stato necessario controllare sia le forze armate che le politiche fiscali nazionali, pertanto, nel 1997 i burattini sottoscrissero e ratificarono il Patto di stabilità e crescita, poche norme che avrebbero dovuto coordinare la disciplina fiscale dell’imminente Unione Economica Monetaria e limitare un’eventuale crisi del debito sovrano. Nonostante il Patto raccomandava bilanci nazionali con un rapporto deficit/PIL inferiore al 3% ed imponeva un rapporto debito pubblico/PIL inferiore al 60%, a causa di pregressi decenni di leggerezze programmatiche e fuorvianti politiche, i criteri sono stati spesso e volentieri ampiamente disattesi. 

Nove anni dopo l’introduzione dell’euro ed undici anni dopo l’adozione del Patto di stabilità, la “crisi del debito sovrano” non è stata minimamente evitata, anzi. Mentre alcune devono ancora manifestarsi, nel 2008 gran parte delle lacune strutturali degli Stati sono emerse chiaramente, evidenziando l’obiettiva incapacità gestionale dei vari burattini e mentre i loro ripetuti tentativi di tamponare l’aggravata situazione si sono rivelati fallimentari, l’idea promossa degli architetti dell’Ue di ridefinire e «rafforzare l’architettura dell’unione economica e monetaria» è stata ampiamente conseguita.

Ad inizio novembre 2011, mentre l’allora Premier Berlusconi asseriva … «mi sembra che in Italia non ci sia una forte crisi (…), i consumi non sono diminuiti, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto, i ristoranti sono pieni», … lo spread italiano oltrepassava quota 570 punti (era 24 punti il 13 novembre 2006). Spread così alto?, secondo gli insegnamenti dei nostri professori di sostegno è sinonimo di un’obiettiva instabilità, pertanto, per ri-“dare a Cesare ciò che è di Cesare”, l’Italia, con altri 25 compagni d’avventura ha espresso il desiderio di «favorire le condizioni per sviluppare un coordinamento sempre più stretto delle politiche economiche» e finanziarie. 

I mass media hanno colto l’occasione per sfoggiare folcloristici vocaboli tipo “unico supervisore bancario”, “DEF”, “manovre aggiuntive”, e mentre la maggior parte dei burattini recitava una parte di mutismo sincronizzato, il Re Magio Monti ha ritenuto opportuno confidare al suo popolo che una riforma del Belpaese era necessaria perché “lo chiede l’Europa”. L’Europa non aveva nulla da richiedere, hanno volontariamente affidato all’Europa la competenza di sorvegliare i bilanci, di monitorare e di valutare i documenti programmatici di bilancio; hanno espressamente chiesto alla Commissione di programmare «un intervallo per gli obiettivi di medio termine» e di «presentare ulteriori proposte legislative» in merito. I burattini hanno richiesto, l’Europa ha acconsentito e nel momento in cui il Patto di stabilità è stato ratificato, ben 14 Stati su 17 si sono presentati all'appuntamento senza aver lontanamente conseguito né il criterio relativo al deficit, né quello relativo al debito.


Oggi gli Stati devono «considerare le loro politiche economiche una questione di interesse comune» e pertanto, l’Unione ha un progetto di massima per le politiche economiche degli Stati, elaborato dal Consiglio europeo, colui che sorveglia sia l’evoluzione economica che la coerenza delle politiche attuate dagli Stati, colui che regolarmente procede ad una valutazione globale. Inoltre, ora che è in vigore l’obbligo di «evitare disavanzi eccessivi», la Commissione «sorveglia il bilancio e l’entità del debito pubblico degli Stati» e può intervenire sia quando uno Stato ha effettivamente un deficit eccessivo, sia quando «sussiste il rischio» che uno Stato possa incorrere un deficit eccessivo, perché prevenire, è sicuramente di gran lunga meglio che curare. Pertanto, quando il neo Premier Letta asserisce che «la legge di stabilità non viene più scritta in Europa perché siamo usciti dalla procedura per deficit eccessivo», non bisogna dargli contro, perché non fa altro che esercitare il suo ruolo di aspirante apprendista sofista. Quando il Consiglio decide che esiste un disavanzo eccessivo, vengono fornite allo Stato le raccomandazioni necessarie a far cessare tale situazione entro un determinato periodo, ed è questo il motivo per il quale l’Italia ha dovuto presentare «a Bruxelles il piano dettagliato» su  come avrebbe rispettato gli “impegni” presi a livello comunitario. Ora, il Belpaese non deve far altro che attuare “manovre” finanziarie per mantenere il deficit entro i limiti consentiti, evitare che venga aperta un’altra procedura, evitare che la Banca europea per gli investimenti (BEI) riconsideri la sua politica di prestiti nei suoi confronti, evitare di incorrere in ammende alquanto salate ed evitare di perdere il diritto di voto presso il Consiglio. In ogni caso, prima che un governo possa approvare il proprio bilancio triennale, dovrà sempre ottenere il via libera dalle istituzioni comunitarie ed internazionali.

Nel frattempo, i burattini non cessano di alternarsi per dimostrare la veridicità di qualsiasi tesi, anche la più paradossale e nel momento in cui Letta l’apprendista ha ostentato le sue conoscenze da illuminista, proiettando il Paese «ad un passo dalla fine della crisi», ha provato l’effettiva esistenza di un Club dove prevale «una visione distorta ed incompleta delle ragioni della crisi che l’Europa sta attraversando». Le previsioni per l’anno in corso attestano il debito pubblico italiano attorno al 130% del PIL e nonostante la notevole capacità di abusare della retorica per propinare mezze verità, lo Stato italiano dovrà in qualche modo reperire nei prossimi 20 anni la modesta somma di 1’400 miliardi di euro, ovvero gli spicci necessari a portare il rapporto debito/PIL al valore di riferimento a Bruxelles richiesto e da Bruxelles imposto. La simpatia di 70 miliardi di euro ogni singolo anno. Ma non è tutto, i criteri ed i vincoli derivanti dal Patto di stabilità non si limitano a così poco e l’obbligo di mantenere finanze sane è solo la punta dell’iceberg, è ormai noto ai molti, ma non a tutti. «Ce la possiamo fare», professa Letta il visionario. Ma che cosa possiamo riuscire a fare? Forse l’aspirante apprendista intende ridare il lavoro a chi l’ha perduto, evitare che il suo popolo a gennaio contribuisca all’aumento di capitale del Fondo Monetario Internazionale, o intende piuttosto resuscitare i “caduti a causa della crisi”? Suvvia, diamo a “Cesare ciò che è di Cesare” e Letta è uno serio! «Io parlo di fatti, lo dico a tutti quelli che raccontano altre storie» disse qualche tempo fa. A dirla tutta, io una storiella da raccontare l’avrei. Letta, una volta diventato un datato burattino, verrà congedato nel dimenticatoio come tutti gli altri, mentre l’inchiostro della Costituzione europea rimarrà cogente. L’obiettivo, la “ragione” sociale del Patto di stabilità è, mediante politiche che stabiliscono «le corrette priorità», «la ristrutturazione delle entrate e delle spese pubbliche», «utilizzare i periodi di ripresa economica per consolidare le finanze pubbliche, raggiungere gradualmente un avanzo di bilancio in modo da disporre del margine di manovra necessario per poter contribuire anche nelle fasi negative alla sostenibilità a lungo termine delle finanze». Ben presto invece del “pareggio” di bilancio, agli Stati verrà chiesto di conseguire un «avanzo di bilancio», non per ridare a “Cesare ciò che è di Cesare”, ma per tentare di saziare l’ingordigia delle organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario. Chissà quando effettivamente finirà la recessione, chissà quando inizierà il periodo di stagnazione e chissà quando realmente ci sarà una palpabile ed obiettiva ripresa economica. Il Patto di stabilità evolverà col tempo, mentre il patto mai sottoscritto con i cittadini si è col tempo affievolito.

Non abbatterti popolo europeo, perché noi abbiamo l’onore di vivere l’anno 2013; sono trascorsi 20 anni da Maastricht e pertanto, questo è l’Anno europeo dei cittadini, l’anno dedicato a noi cittadini dell’Unione ed ai nostri diritti. «In questi vent’anni di cittadinanza europea molto è stato fatto, ed un recente sondaggio UE indica che oggi ben il 63% dei cittadini si sente “europeo”, una percentuale che in Grecia non supera il 46%». Chissà perché, saranno poco riconoscenti questi greci, oppure gli effetti della cittadinanza UE non sono noti a tutti. Sempre «secondo i sondaggi, 2 greci su 3 dicono di non sapere abbastanza sui loro diritti in quanto cittadini dell’Unione, mentre 6 greci su 10 vorrebbero saperne di più». Ma quante sottigliezze!, basta pensare che noi cittadini abbiamo recentemente ottenuto un premio Nobel per la nostra totale obbedienza e per questo, Herman V. Rompuy, ritirando il Nobel a nostro nome, si ricordò di evidenziarlo, dicendo che «il premio non è destinato soltanto al progetto ed alle istituzioni che incarnano un interesse comune, bensì ai 500 milioni di cittadini che vivono nella NOSTRA Unione». A chi non dovesse bastare vivere nella LORO Unione, a chi non dovesse essere bastato ricevere il Nobel, a chi dovesse sentirsi trascurato dall’Unione, ricordasse che questo è il suo anno, l’anno dedicato al cittadino ed ai suoi diritti.

Per festeggiare doverosamente questo anniversario, al cittadino europeo è stato gentilmente conferito il diritto di contribuire attivamente e concretamente al conseguimento degli obiettivi dell’Unione. Pertanto, grazie all’attuale “schema di Ponzi”, ogni singolo cittadino ha il diritto fare la sua parte affinché l’amministrazione statale, regionale e locale, fondi di previdenza sociale compresi, abbiano la possibilità di detenere e mantenere finanze pubbliche sane e sostenibili. Per chi non l’avesse intuito,  grazie al “Ponzi” di turno, ognuno potrà avvalersi delle disponibilità altrui, basta che sia di rango gerarchicamente inferiore. Chi non avesse ancora approfondito le difficoltà dell’amministrazione statale, di quella regionale, di quella locale e soprattutto dei fondi di previdenza sociale, è bene che segua più regolarmente i numerosi corsi di recupero offerti. L’ignoranza potrebbe portare a pensare che l’introduzione della tassa "Trise" sia  una dorata àncora di salvataggio sia per i fondi di previdenza sociale, sia per l’amministrazione locale, sia per quella regionale ed ovviamente, soprattutto per quella statale. Per evitare il rischio di incorrere in difetto, sarebbe opportuno anticipare il supporto pubblico al rafforzamento patrimoniale, mediante una valorizzazione ed una susseguente dismissione del patrimonio pubblico.

Ma un giorno ci pentiremo di non riconoscere più la cultura dei luoghi dove sono nati i nostri genitori e saremo emotivamente distanti dalle vicissitudini del nostro territorio. In quel momento, lo spogliarsi della propria cittadinanza ed il provarne quasi disgusto, saranno i presupposti per abbracciare una nuova cittadinanza, una cittadinanza di cui a nostra insaputa, eravamo in possesso da almeno 15 anni. Quanto tempo affinché, per consuetudine o per rassegnazione, 10 cittadini su 10 si sentiranno parte di QUESTA Unione? 

… “è così che muore la libertà, sotto scroscianti applausi” …
Star Wars – La vendetta dei Sith

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