di Chris Richmond Nzi
Questo pezzo, Le tre teste della Troika - Parte III, avrebbe dovuto racchiudere le principali informazioni riguardanti il secondo pilastro del famigerato terzetto denominato Troika, il peso massimo schierato dall’Ue per affiancare il suo fidato e temuto compagno d’avventura, il Fondo Monetario Internazionale.
Avevo preparato un comune articolo, ricco di nozioni di diritto, di storia e di teorie, la solita versione della leggenda metropolitana che da qualche anno ormai riecheggia incessantemente nel fondo della valle. Cose già sentite ed ovviamente dimenticate perché impalpabili ed incomprensibili, allo stesso momento. Ho così deciso di tralasciare quanto scritto e di rinunciare al solito e scontato metodo, scegliendo di presentare la “seconda testa della Troika” da un’inconsueta prospettiva, usando un linguaggio che il popolo dovrebbe facilmente riconoscere. Utilizzerò le parole direttamente espresse dai rappresentanti del popolo, voglio deviare da stretti sentieri già intrapresi e da contorte interpretazioni di leggi, tesi, antitesi e retoriche, evitando così di poter essere frainteso e giungere direttamente al perno principale della questione.
Il 13 dicembre 2007 i rappresentanti dei governi della Comunità europea, l’organizzazione internazionale precursore di ciò che oggi si conosce come l’Unione europea, firmando ed approvando il Trattato di Lisbona, uno dei trattati che fonda la Costituzione europea, accettarono di «segnare una nuova tappa nel processo di integrazione europea intrapreso con l’istituzione delle Comunità europee». Una nuova tappa di quel fenomeno che viene ormai descritto con il termine “globalizzazione”.
Siccome nelle disposizioni finali del Trattato di Lisbona viene enunciato che «nessuno Stato è tenuto a fornire informazioni la cui divulgazione sia considerata contraria agli interessi della propria sicurezza», si capisce perché «i membri delle istituzioni dell’Unione sono tenuti, anche dopo la cessazione delle loro funzioni, a non divulgare le informazioni che per loro natura siano protette dal segreto professionale» e forse, appare anche ovvio come mai «l’Unione gode delle immunità e dei privilegi necessari all’assolvimento dei suoi compiti». Semplicemente perché se i rappresentanti dal popolo eletti, invece di limitarsi a perfezionare l’uso della retorica, esercitassero ogni tanto il modo per divulgare la vera natura dello scherzetto al quale si sono resi complici, il risultato sarebbe una protesta che non sarebbe minimamente comparabile a quella del popolo turco a Piazza Taksim.
Nel lontano 1944, ignorando la dottrina di John Maynard Keynes ed abbracciando la visione capitalistica promossa dal Harry Dexter White, i rappresentanti eletti dal popolo hanno instaurato un nuovo sistema economico. Sistema che ha condotto il popolo per spericolati sentieri, attraverso svariate crisi, guidandolo ciecamente verso il nuovo millennio. Le generazioni di pensatori si sono susseguite, eppure, sette decenni dopo l’adozione di tale dottrina, sembra tutto un dejà vu: la storia è già stata sentita, tramandata dalle leggende metropolitane. A cicli si ripropone e viene spesso deformata dalle varie tesi, antitesi e retoriche portate aventi dei rappresentanti incapaci di verità.
Tralasciando per questa volta le varie accuse a carico del criterio, della filosofia e della misura che concimano l’Unione europea, vorrei proporre la questione da un’inconsueta angolazione, dalla prospettiva di chi rappresentata il popolo elettore. Quel 13 dicembre 2007, durante la Conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato di Lisbona, i capi di Stato e di governo, in qualità di rappresentanti e “prestanome” del popolo, hanno emesso dichiarazioni riguardo ciò che avevano appena convenuto e riguardo ciò che da li a poco si sarebbero apprestati a firmare: la cosiddetta «tappa nel processo di integrazione europea».
La più inconsueta e tanto familiare delle dichiarazioni fatte dai rappresentanti quel giorno recita così: «gli Stati membri della comunità prendono atto che il governo italiano è impegnato nell'esecuzione di un programma decennale di espansione economica che mira a sanare gli squilibri strutturali della sua economia, in particolare, grazie all'attrezzatura delle zone meno sviluppate nel Mezzogiorno e nelle isole, ed alla creazione di nuovi posti di lavoro per eliminare la disoccupazione». Infatti oggi si parla ancora di fondi strutturali per il Sud e la disoccupazione prosegue nel raggiungere valori appunto già visti. «Gli Stati membri ricordano» inoltre, «che tale programma è stato preso in considerazione e approvato nei suoi principi ed obiettivi da organizzazioni di cooperazione internazionale», di cui gli Stati membri stessi ne «sono membri». Leggi Fondo Monetario Internazionale & Co., solo perché la Costituzione dichiara che gli Stati «possono negoziare e concludere accordi con organizzazioni interazionali, purché detti accordi siano conformi al diritto dell’Unione». Purché conformi al diritto dell'Unione! Ma se si provasse a sovrapporre il diritto supremo europeo al diritto internazionale, salterebbe all’occhio la casuale ed altrettanto perfetta linearità tra i due ordinamenti. Inoltre, i rappresentanti «riconoscono che il raggiungimento degli obiettivi del programma italiano risponde al loro interesse comune». Presto si intuirà quale sia e perché! I capi di Stato o di governo «ritengono che le istituzioni della Comunità debbano considerare lo sforzo che l’economia italiana dovrà sostenere nei prossimi anni, nonché l’opportunità di evitare che insorgano pericolose tensioni, in particolare per quanto riguarda la bilancia dei pagamenti o il livello dell’occupazione», oppure «tensioni che potrebbero compromettere l’applicazione del Trattato» di Lisbona «in Italia». Intanto, pochi giorni fa il governo italiano ha annunciato con fierezza di essere riuscito a levarsi di dosso la procedura di infrazione aperta nei suoi confronti, di avere rispettato il cosiddetto patto di stabilità e di essere in regola con i paletti imposti dall’Unione. 6 anni dopo quella famosa predizione!
Sempre secondo le dichiarazioni dei capi di Stato o di governo, «il patto di stabilità è uno strumento importante per realizzare» la bilancia dei pagamenti ed «evitare disavanzi pubblici eccessivi» e ribadiscono altresì che «il coordinamento delle politiche di bilancio» all’interno dell’Unione europea, viene eseguito «nel quadro del patto di stabilità», semplicemente perché «un sistema fondato sulle regole è la migliore garanzia affinché tutti gli Stati membri ricevano pari trattamento». Suona come una melodica minaccia!
Secondo i rappresentanti, «le politiche economiche e di bilancio devono stabilire le corrette priorità nelle fasi di crescita economica debole e ciò dovrebbe riflettersi negli orientamenti delle decisioni in materia di bilancio a livello nazionale, in particolare, mediante la ristrutturazione delle entrate e spese pubbliche» degli Stati stessi. I capi di Stato o di governo dichiarano che le nazioni dovrebbero «utilizzare i periodi di ripresa economica per consolidare le finanze pubbliche», perché «l’obiettivo, è raggiungere gradualmente un avanzo di bilancio». L’obiettivo dei rappresentanti dal popolo eletto non è migliorare le condizioni di vita del popolo mandante, quello che ha reso loro possibile ricoprire tale carica, bensì quello di trovare le corrette priorità, rimodulando le entrare e le spese degli Stati e raggiungere gradualmente una avanzo di bilancio. Riempire il loro salvadanaio, svuotando le tasche dei loro elettori. Ma niente paura!, perché i rappresentanti tranquillizzano il popolo asserendo che l’Unione non è autorizzata «in alcun modo a legiferare o ad agire al di là delle competenze» che loro stessi Le hanno attribuito e che «qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati, appartiene agli Stati». Eppure, proprio un articolo del Trattato di Lisbona che i rappresentanti hanno accettato e sottoscritto, enuncia che «se un’azione dell’Unione appare necessaria per realizzare uno degli obiettivi senza che» i trattati ne «abbiano previsto i poteri», l’Unione stessa «adotta le disposizioni appropriate» a riguardo. Incredibile notare la dedizione e la tenacia nelle intenzioni dei rappresentanti, di voler a tutti i costi, con l’intelletto e/o con la forza, conseguire senza se e senza ma, gli obiettivi preposti.
Si potrebbe concludere con un’ennesima dichiarazione degli Stati membri secondo cui «per giurisprudenza costante, i trattati ed il diritto adottato dall’Unione prevalgono sul diritto degli Stati membri», perché –la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale insito nella natura specifica della Comunità europea. Sì, potrebbe bastare come conclusione, eppure così non sarà, perché bisogna anche dire che nonostante tutto, i capi di Stato o di governo dal popolo eletti, responsabili d’aver appoggiato e sostenuto il Trattato di Lisbona, hanno anche asserito con le loro dichiarazioni che loro stessi, «rappresentanti dei governi degli Stati membri, possono decidere di modificare i trattati, anche per accrescere o ridurre le competenze attribuite all’Unione in detti trattati». È buffo, perché i vecchi rappresentanti di questo particolare non ne hanno mai discusso in pubblico, gli attuali rappresentanti nemmeno, mentre gli scalpitanti e probabili futuri rappresentanti forse neanche lo sanno, o probabilmente, fanno soltanto la parte di non sapere, mentre certi di loro con l’uso della retorica, promettono di cercare la porta d’emergenza EXIT. Non espongono questo particolare al popolo che di loro si è fidato, semplicemente perché anch’essi, come i loro predecessori, sono profondamente attratti dalla possibilità di venire a conoscenza di «informazioni che per loro natura sono protette dal segreto professionale» e muoiono dalla voglia di poter avere in dotazione «immunità e privilegi necessari all’assolvimento» dei loro futuri «compiti».
Queste non sono distorte meschinerie o interpretazioni di parte, sono semplicemente dichiarazioni espresse all’atto finale della Conferenza intergovernativa dai rappresentanti dei vari governi stessi, coloro che hanno accettato ed adottato il Trattato di Lisbona per conto del popolo che li ha eletti. Questa è la loro descrizione della «nuova tappa nel processo d’integrazione europea» e questa, è la loro visione del sentiero per il quale conducono il popolo «in previsione degli ulteriori passi da compiere al fine dello sviluppo dell’integrazione europea».
I principali organi istituzionali dell’attuale Unione europea sono rimasti pressoché invariati, dai tempi della creazione dell’organizzazione internazionale Comunità europea. Mentre il Parlamento è composto da rappresentanti del popolo eletti a suffragio universale e mentre il Consiglio europeo è formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, la Commissione europea invece, la più influente tra le tre istituzioni, è composta da personaggi «scelti in base alla loro competenza generale, al loro impegno europeo e tra le personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza», ed ovviamente, non vengono scelti tramite votazione popolare, semplicemente perché devono essere e rimanere «indipendenti», appunto.
La Commissione europea è l’organo istituzionale che «promuove l’interesse generale dell’Unione e adotta le iniziative appropriate a tal fine», è colui che «vigila sull’applicazione dei trattati e del diritto dell’Unione», quello che «dà esecuzione al bilancio e gestisce i programmi». È l’ente che esercita le funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione della programmazione annuale e pluriennale dell’Unione», ed è un organo istituzionale che «esercita le sue responsabilità in piena indipendenza» e non accetta «istruzioni da alcun governo, istituzione, organo oppure organismo». Si potrebbe quindi asserire che la Commissione europea sia la pecora nera in mezzo alle istituzioni dell’Unione, diversa per natura. Ma attenzione a non cadere in inganno, perché qualcuno una volta dichiarò che “gli ultimi saranno i primi, e i primi ultimi”.
E mentre mi avvio verso la conclusione, vorrei precisare che i rappresentanti dal popolo eletti, con l’ ennesima fuorviante dichiarazione, prendono «atto dell’intenzione della Commissione di continuare a consultare gli esperti» da loro, rappresentanti stessi «nominati, nell’elaborazione dei progetti dei servizi finanziari», come «secondo la sua» solita «prassi». Coscienti e consapevoli della storia che hanno concepito, i capi di Stato o di governo accettano che la Commissione europea continui a consultare personaggi come il Fondo Monetario Internazionale per elaborarare i progetti dei servizi finanziari che i loro governi stessi dovranno poi rispettare, a discapito dei loro stessi elettori, coloro che li hanno nominati tali.
Questa è la Commissione europea, colei che ricevendo il premio Nobel per la pace a nome del popolo europeo ha dichiarato che «il premio non è destinato soltanto al progetto ed alle istituzioni che incarnano un interesse comune, bensì ai 500 milioni di cittadini che vivono nella NOSTRA unione». Nella LORO unione. E per la LORO Unione, i rappresentanti dal popolo eletti hanno scelto e voluto tale Commissione come organo istituzionale principale e predominante. Quell’organo istituzionale che «esercita le sue responsabilità in piena indipendenza» e che non accetta «istruzioni da alcun governo, istituzione, organo oppure organismo».
Questa è la Commissione europea, l’ideale, la spregiudicata e la leale compagna di avventura del temerario Fondo Monetario Internazionale, l’organo istituzionale che i rappresentanti dal popolo hanno creato per prendere parte al terno della discordia volto a terrorizzare e destabilizzare il popolo europeo. Questa è la Commissione europea, colei che assieme al Fondo Monetario Internazionale compone senza se e senza ma, 2/3 del trio denominato Troika.
Se il perno principale della questione era capire e forse definitivamente chiarire se l’oggetto in causa, ovvero l’Unione europea, possa obiettivamente essere riconosciuta come positiva, come una gradevole consuetudine da promuovere, ulteriori dichiarazioni e conclusioni sarebbero questa volta superflue. Semplicemente perché per una volta, i rappresentanti dal popolo eletti hanno ampiamente già concluso con le loro dichiarazioni di quel 13 dicembre 2007, ciò che effettivamente il popolo stesso ha finalmente capito non attraverso le varie leggende metropolitane che riecheggiano dal fondo valle, ma purtroppo, appurando il tutto drasticamente sulla loro pelle. Appurato appunto, come fosse il “Jenix”, quel devastante liquido urticante, drasticamente ed obiettivamente voluto ed usato dai rappresentanti del popolo turco per dissuadere le proteste dei propri elettori stessi, ammassati in protesta, a Piazza Taksim.
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